Caso Raimo: dov' è il confine tra critica e insulto? Un Codice di comportamento che divide
Nel caso di Christian Raimo, il professore sospeso per aver espresso giudizi al vetriolo contro il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, la questione va ben oltre il singolo episodio e chiama i...

Nel caso di Christian Raimo, il professore sospeso per aver espresso giudizi al vetriolo contro il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, la questione va ben oltre il singolo episodio e chiama in causa principi cardine del nostro sistema pubblico. Da un lato, la Federazione Lavoratori della Conoscenza (FLC) CGIL, che difende la libertà di espressione del dipendente pubblico come fosse un totem intoccabile. Dall’altro, il Ministero e i rappresentanti della maggioranza, che ribadiscono che certe parole non sono una critica ma un insulto.
Si potrebbe pensare che siamo davanti alla solita schermaglia tra le parti, ma la questione è molto più sottile. Raimo, che ha definito Valditara “lurido” e “cialtrone”, evocando la Morte Nera in stile fantascientifico, non è solo un intellettuale con idee forti. È un docente, uno di quei formatori che ogni giorno, per contratto e missione, contribuisce a modellare le nuove generazioni. Possiamo davvero permetterci che simili toni siano considerati parte della “normale” dialettica politica di un insegnante?
Il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, aggiornato con il DPR 81/2023, è nato per mettere un freno a chi crede che l’impiego pubblico sia un palco da cui sparare a zero su tutto e tutti senza distinzione. E il punto è proprio questo: non stiamo parlando di una limitazione della libertà di espressione in senso ampio, ma di un invito a non dimenticare che chi è investito di un ruolo pubblico ha una responsabilità anche nel linguaggio. La CGIL dice che questa è censura. È davvero così? O è piuttosto una necessaria barriera contro chi crede di poter dire tutto, anche l’indicibile, senza rispondere delle proprie parole?
I sostenitori del provvedimento parlano chiaro: la critica è sacrosanta, ma l’insulto gratuito no. E Raimo, ben conscio del contesto pubblico, ha usato parole che suonano come proiettili in direzione dell’istituzione. Che ne è del decoro, allora? Di quella necessaria misura nel linguaggio che deve distinguere chi si occupa della cosa pubblica da chi sfoga i propri nervi sul primo che passa? Lo Stato non può fare spallucce di fronte all’uso di espressioni oltraggiose da parte dei suoi dipendenti, specialmente se rivolte ai vertici istituzionali. Tollerare simili eccessi rischia di minare la credibilità stessa dell’apparato pubblico, il che, ahinoi, è tutto dire.
E la CGIL? Il sindacato sembra farsi paladino di una “libertà” che rasenta l’assolutismo del pensiero, senza limite né responsabilità. Ma è qui che si cade in un tranello: difendere la libertà di espressione non può significare avallare il disprezzo, tantomeno quando questo disprezzo viene dal pulpito di un’aula scolastica. La libertà che pretende la CGIL è un mantello fin troppo largo, sotto il quale troppi potrebbero celarsi per veicolare un messaggio personale, ideologico e, diciamolo pure, poco professionale.
Alla fine, ciò che emerge è un nodo irrisolto: dove finisce la critica e inizia l’offesa? È un problema di confini, e i confini sono importanti, soprattutto in un’epoca in cui tutti vogliono dire tutto. Raimo è il simbolo di una battaglia più ampia, che riguarda il diritto e il dovere dei pubblici dipendenti di parlare. Ma parlare non è sinonimo di offendere.
In definitiva, il Codice di comportamento può essere perfettibile, ma finché la CGIL non si rassegna a distinguere tra il diritto di parola e il dovere di rispetto, la questione non si risolverà. E noi rimarremo impantanati in questo paradosso: chi lavora per lo Stato può, senza conseguenze, demolire l’istituzione stessa?