La Voce della Scuola

Cinquant’anni fa, Todo modo

Nel 1974, Leonardo Sciascia pubblicava, presso Einaudi, il romanzo Todo modo, che raccontava di un famoso pittore,quarantenne, io-narrante della storia, il quale, per un bisogno di pace interiore, giungeva, del tutto casualmente

A cura di Trifone Gargano
28 ottobre 2024 11:52
Cinquant’anni fa, Todo modo -
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Nel 1974, Leonardo Sciascia pubblicava, presso Einaudi, il romanzo Todo modo, che raccontava di un famoso pittore,quarantenne, io-narrante della storia, il quale, per un bisogno di pace interiore, giungeva, del tutto casualmente, in un misterioso eremo-albergo, del quale aveva letto, lì per lì, nome e indicazionesu di un cartello stradale («Eremo di Zafer 3»), girovagando con la sua auto:

 

Poiché tutto, dentro di me e intorno a me, era ormai da anni finzione. Non vivevo che ingannandomi, e facendomi ingannare.

 

L’eremo-albergo era gestito da don Gaetano, un prete sorprendente, erudito e mondano; e l’eremo-albergo, in queglistessi giorni, ospitava un annuale ritiro spirituale di personalità di primissimo piano dell’industria, dell’economia, dell’alto clero (i «principi della Chiesa»), e della politica italiana, per il compimento di «esercizi spirituali». Era convinzione, infatti, di Sant’Ignazio di Loyola, ideatore degli esercizi, e fondatore dell’ordine gesuitico, che il miglior modo, che chiunque avesse, per adeguarsi alla volontà divina, fosse proprio quella di praticare gli esercizi: 

 

«todo modo, todo modo, todo modo […] para buscar y hallar la voluntad divina…»

 

Apparirà subito chiaro, al lettore del romanzo di Sciascia, che gli esercizi spirituali che si stanno svolgendo in questo eremo-albergo, sotto la regia di don Gaetano, in realtà, altro non sono che la copertura di uno scontro di potere:

 

Si sentivano in vacanza: ma una vacanza che permetteva di riannodare fruttuose relazioni, ordire trame di potere e di ricchezza, rovesciare alleanze e restituire tradimenti […]

…rappresentavano il mondo cristiano e cattolico nel governo della cosa pubblica e comunque nelle cose volte al pubblico bene, bisognava che in quella settimana si domandassero, principalmente, assolutamente: abbiamo dato a Dio quel che è di Dio?

 

La vita di quell’eremo-albergo, con i suoi intrighi, e con le sue ipocrisie (comprese cinque misteriose donne, bellocce, giovani e alquanto volgari negli atti, giunte con qualche giorno di anticipo nell’eremo-albergo, sistematesi i rispettive stanze, con la compiacenza di don Gaetano, per allietare, evidentemente, la permanenza di cinque tra i potenti, di quella cerchia eletta), viene scossa da una serie di misteriosi delitti. Il binario narrativo, il modo espressivo, di questo romanzo di Sciascia, come di altre sueopere precedenti (Il giorno della civetta, che è del 1961; A ciascuno il suo, che è del 1966; Il contesto, che è del 1971), è quello del giallo. Scoperto il primo cadavere, e avvisata la polizia, il pittore e il cuoco dell’eremo-albergo scambiano alcune battute di scetticismo sulle possibilità che le indagini giunganoall’accertamento della verità, e che, a volte, le cose si complicano, proprio grazie alla polizia:

 

– Ha avuto a che fare con la polizia?

– Sì, ma non per qualcosa che io ho fatto: per qualcosa che hanno fatto a me. Da derubato. Derubato del portafogli, da uno sconosciuto cui avevo dato un passaggio. Ho fatto la denuncia. E sa che hanno pensato?

– Simulazione di reato.

– Appunto. Mi hanno torchiato per mezza giornata: sposato, sì; una relazione extra, no; giuoco, mai giuocato; nemmeno al lotto, nemmeno al lotto; debiti, neanche di una lira; quanto avevo nel portafogli, qualcosa come centomila lire; esattamente, non lo so; impossibile, possibilissimo… E batti e ribatti su questo punto finché esasperato, ho detto al maresciallo – mi dica lei quanto ha nel portafogli, esattamente -. Ci ha pensato un po’, ché non se l’aspettava, poi secco mi ha risposto – trentasettemilacinquecento -. E io, ingenuamente – vediamolo. È successo il finimondo. Poi hanno chiamato mia moglie, e le hanno messo il dubbio che io mantenessi un’altra donna. Insomma: ho passato un guaio. Da derubato.

 

Ben presto, l’attenzione dello scrittore si allarga progressivamente, verso riflessioni e considerazioni sulla natura del potere, sulla sua arroganza, sulla sua impunità, e, dunque, sulla impossibilità di giungere all’accertamento della verità e, quindi, alla giustizia. Le riflessioni dell’io-narrante si allargano, tra il filosofico e il letterario, a comporre una fitta trana di rinvii a opere, e ad autori, tanto del passato, come del presente (dal Vangelo, al Corano, da papa Pio II, autore dei Commentari, a Collodi, a Poe, ad Anna Maria Ortese, a Pirandello, giusto per fare qualche nome). Il commissario di polizia, che è giunto per primo sulla scena del delitto, chiamato da don Gaetano, di tanto in tanto, anche in aperto contrasto con il procuratore Scalambri, si lascia andare in considerazioni sulla inadeguatezza dei metodi di indagine, che, a suo giudizio, sarebbero troppo blandi, e troppo guardinghi e rispettosi dello status dei sospettati (in considerazione, cioè, della levatura sociale, economica e politica degli stessi), come, per esempio, nella pagina in cui si sfoga con il pittore (io-narrantedella storia), sostenendo che, se fosse stato nella sua autorità, avrebbe ben torchiato sia don Gaetano, che il ministro, e tutti gli altri, senza riguardo, o distinzione alcuna, con la certezza di giungere, così facendo, all’accertamento della verità:

 

Quando uno che si crede potente entra in un posto di polizia e si sente ordinare di togliersi le stringhe dalle scarpe e la cintura dai pantaloni, crolla, mio caro amico, crolla che lei non se lo immagina nemmeno.

– Anche don Gaetano?

– Anche don Gaetano, e il papa, e domineddio… Provi a immaginare la scena: il posto di polizia, una stanza squallida come la mia, quel tipico odore che Gadda fa sentire così indelebilmente e che assale le narici ogni volta che si parla di polizia […]; dietro la scrivania il commissario che non si alza, che non fa il minimo gesto non dico di ossequio ma di saluto; il brigadiere in piedi, che con indifferenza o addirittura disprezzo dice «signor Montini, si tolga le stringhe dalle scarpe e la cintura dai pantaloni»… La fine, mio caro amico, la fine.

 

Nel film che già nel 1976 uscì nelle sale, con lo stesso titolo e con la regia di Elio Petri, liberamente ispirato al romanzo di Leonardo Sciascia, il ministro di cui si legge nel romanzo viene appellato come il Presidente, e l’attore che lo interpreta, Gian Maria Volontè, imita, nella parte, in tutto e per tutto, alla perfezione, pur senza nominarlo mai, per somiglianza di trucco, per movenze, per tono di voce, e per lessico (funambolico e barocco), l’allora Presidente del Consiglio, l’onorevole Aldo Moro. Lo stesso regista Elio Petri raccontò che il “girato” dei primi due giorni di lavorazione del film fu deliberatamente cestinato, in accordo con Volontè, poiché la somiglianza con Aldo Moro, nei gesti, nel modo di parlare, nel tono della voce, nelle movenze, in tutto, fosse per davvero imbarazzante. Nel libro, si dà un esempio dell’eloquio del ministro, nel momento in cui, subito dopo il rinvenimento del primo cadavere, questi scambia alcune battute con il procuratoredella repubblica giunto nell’eremo-albergo, per svolgere le indagini, il dottor Scalambri:

 

Il ministro fu ossequioso fino all’estremo […].

Signor procuratore – disse il ministro dopo i più arzigogolati, e contraccambiati, convenevoli – lei, immagino, vorrà sentire le impressioni di ciascuno di noi, poiché nient’altro che d’impressioni credo si sia in grado di riferire… Ma siamo tanti, come vede… E non si potrebbe, mi permetto di chiedere, rimandare a domani mattina, all’ora che a lei piacerà di stabilire…?

– Ma certo, certo… – acconsentì precipitosamente Scalambri.

– La ringrazio – disse il ministro.

 

Ma di trovare il «filo», la «matassa», della serie di quegli strani (ed efferati) omicidi, proprio non se ne vede l’origine, il capo, il bandolo. Anzi. Come, del resto, si legge in uno scambio vivace (e rassegnato) tra il commissario e il procuratore:

 

…rischiamo di perdere del tutto il filo?

– Quale filo? – domandò con aria tonta il commissario. Si divertiva.

– Ma il filo… – disse confuso, e sottovoce, Scalambri – il filo del denaro, degli interessi, degli affari loro, dei ricatti: che è l’unico possibile.

– Solo che non lo teniamo – disse il commissario.

– Non lo teniamo, va bene… – La voce di Scalambrivibrò istericamente. – Va bene, non lo teniamo: ma dobbiamo cercare di raggiungerlo, di afferrarlo… Ho già dato disposizioni; dei miei colleghi, in più luoghi, stanno indagando. Non dormo, io…

 

Al rinvenimento del terzo cadavere, trovato nelle vicinanze dell’eremo-albergo, all’interno del parco-bosco che lo circonda, nei pressi del vecchio mulino, e che è il corpo oramai inanimato dello stesso don Gaetano, ucciso da un colpo di pistola, il dottor Scalambri decide di sciogliere la compagnia, di far sgomberare immediatamente l’eremo-albergo, mettendolo sotto sequestro, e mandando tutti a casa, ospiti e personale compreso:

 

Scalambri prese una decisione che sembrò improvvisa, e forse non lo era. Rivolgendosi a quello che nel suo latino aveva chiamato popolo, disse – Vi prego, signori, di tornare in albergo. E preparatevi a lasciarlo entro stasera.

Sorse un brusio di protesta.

– È una misura che si impone: per la vostra sicurezza, per la mia responsabilità…

– Giusto – disse il ministro. – Forse bisognava pensarci un po’ prima.

Scalambri no  raccolse il rimprovero. Ma con più ferma e irata autorità ribadì – Entro stasera, l’albergo deve essere sgomberato; non deve restarci nemmeno il gatto.

 

La compagnia si scioglie, dunque, senza aver nemmeno intravisto (non trovato, no, ma solo intravisto) quel «filo», quel bandolo, dell’intricata matassa dei tre delitti, che tenesse assieme i tre cadaveri. Nulla.

 

Dettaglio curioso (e inquietante), rivisto oggi, a cinquant’anni di distanza, dal libro e dal film, dopo, cioè, il lock-down da Covid 19, che il mondo intero ha vissuto, è quello presente nel film di Elio Petri, Todo modo, che, lo ripeto, è del 1976, riguarda la scena nella quale la macchina del Presidente (alias il ministro del romanzo), sfreccia, dirigendosi verso l’eremo-albergo, con tanto di scorta, per le vie di una città deserta, tranne le tende della Croce rossa, in lock-down, per effetto, si sente dire da una voce metallica, da altoparlante, del contagio, e dei rischi per la salute pubblica, dovuti alla diffusione di un virus, contro il quale,all’inerme popolazione, non resta che sottoporsi con urgenza e con fiducia alle necessarie vaccinazioni. Davvero sorprendente.

 

Ecco il link, per chi volesse vedere la scena del film cui ho fatto riferimento.

 

 

 

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