La Voce della Scuola

Continuità didattica: "Sarà continuità o caos a settembre?". L'intervista a Vincenzo Falabella, Presidente FISH

Continuità didattica: "Sarà continuità o caos a settembre?". L'intervista a Vincenzo Farabella, Presidente FISH

A cura di Doriana D'Elia
12 giugno 2025 17:03
Continuità didattica: "Sarà continuità o caos a settembre?". L'intervista a Vincenzo Falabella, Presidente FISH -
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Da Il Glossario: le interviste. Dalle deleghe in bianco al Decreto Ministeriale 32. Una riforma, quella del sostegno, che vede la luce dopo 10 anni dalla sua prima posa.

Tutte le fasi e il background:
– Legge 107/2015Sarà continuità o caos al “riordinato avvio” di settembre?
– D.lgs 66/2017
– Legge 106/2024
– D.M. 32/2025

“Sarà continuità o caos al “riordinato avvio” di settembre?”, ne parliamo con il Presidente FISH, Vincenzo Farabella.

Sotto i riflettori:
– il sistema di abilitazioni;
– la figura del caregiver;
– gli avvicendamenti delle associazioni di categoria;
– gli organici: tra tagli e incrementi;
– le diagnosi;
– il sistema di reclutamento in bilico tra graduatorie e chiamata diretta.

Parleremo del decennio che ha messo in luce tutte le criticità del sistema inclusivo italiano con l’epilogo: “FISH soddisfatta per l’ordinanza del TAR Lazio: continuità didattica diritto fondamentale studenti con disabilità”, dal comunicato del 26 maggio 2025.
È nostro desiderio ripercorrere le tappe decisive della riforma che vede come evento epocale il D.M. 32/2025 nel sistema scolastico italiano. Cogliere i punti di vista delle parti è fondamentale per un quadro d’insieme che deve collaborare allo stesso tavolo: quello dell’inclusione. La rubrica “Il glossario: le interviste” de La Voce della Scuola apre raccogliendo il punto di vista delle famiglie con la Federazione italiana per il superamento dell’handicap (FISH), l’organizzazione ombrello che raggruppa le più rappresentative associazioni di persone con disabilità e dei loro familiari.

Sarà continuità o caos al  “riordinato avvio” di settembre 2025? Chiusa la prima fase di raccolta delle richieste con scadenza al 31 maggio: quale sono le previsioni, i dati attesi e gli avvicendamenti burocratici?Cosa accadrà in caso di istanza disattesa?

L’avvio del nuovo anno scolastico si presenta come un delicato equilibrio tra pianificazione e imprevisti, dove ogni tassello dovrà trovare tempestivamente il suo posto per evitare ripercussioni sull’intero sistema. La chiusura della fase di raccolta dati ha fornito gli elementi necessari per costruire un quadro organizzativo solido, ma ora la palla passa alla capacità concreta di tradurre queste informazioni in scelte operative efficaci. Il vero banco di prova risiede nella fase di transizione tra giugno e luglio, periodo cruciale in cui si dovranno:
– perfezionare gli organici attraverso un attento dialogo tra scuole e Uffici Territoriali
– definire con precisione le assegnazioni dei docenti
– comunicare alle famiglie le scelte organizzative in tempo utile
– anticipare e risolvere eventuali criticità legate alla mobilità del personale
La qualità di questa fase preparatoria determinerà direttamente l’esperienza di settembre. Un processo ben orchestrato potrebbe rappresentare un modello di efficienza, dimostrando come sia possibile conciliare complessità normativa e bisogni concreti. Al contrario, eventuali ritardi o disallineamenti rischiano di riproporre quelle criticità che hanno spesso caratterizzato gli inizi d’anno: classi non ancora formate, docenti assegnati all’ultimo momento, incertezze per studenti e famiglie. Particolare attenzione merita il tema della comunicazione. Informazioni chiare e tempestive rivolte alle famiglie non rappresentano solo un atto dovuto, ma un vero e moltiplicatore di fiducia nel sistema. Allo stesso modo, una trasparente interlocuzione con il personale docente può prevenire molte delle tensioni che tradizionalmente accompagnano il periodo pre-apertura. Il successo finale dipenderà dalla capacità di mantenere coeso questo complesso mosaico, dove ogni elemento – dall’assegnazione delle cattedre alla formazione delle classi, dalla gestione delle supplenze all’accoglienza degli alunni – dovrà trovare la sua giusta collocazione in un disegno armonico. La sfida è aperta e i prossimi due mesi rappresentano l’occasione per dimostrare che un “riordinato avvio” non è solo uno slogan, ma una concreta possibilità”.

Abilitazioni. Il percorso alla specializzazione per le attività teorico-pratiche del sostegno ha visto varie albe nell’ultimo decennio: dalle specializzazioni biennali di prima ondata al sistema del tirocinio formativo attivo (TFA) con percorsi ordinari e poi slim fino all’Indire. Le famiglie coinvolte quale percezione globale ha avuto del sistema formativo che ha determinato la professionalità del docente specializzato che accompagna i propri figli?

“La formazione degli insegnanti di sostegno rappresenta il cuore pulsante di un sistema inclusivo che deve necessariamente evolvere per rispondere alle reali esigenze degli alunni con disabilità. L’eterogeneità dei percorsi formativi finora sperimentati ha dimostrato come solo una preparazione solida, strutturata e sufficientemente lunga possa garantire quelle competenze specialistiche che la complessità delle classi oggi richiede. In questo contesto, l’istituzione di un percorso biennale di specializzazione non è più rinviabile: due anni di formazione consentirebbero infatti di approfondire sia gli aspetti teorici che quelli pratici, con un equilibrio tra studio disciplinare, pedagogia speciale e tirocinio sul campo.

Una formazione biennale permetterebbe di:
• Approfondire la conoscenza delle diverse disabilità e dei relativi approcci educativi
• Sviluppare competenze di progettazione didattica realmente inclusive
• Acquisire strumenti per la collaborazione con tutte le figure coinvolte (famiglie, terapisti, assistenti)
• Sperimentare sul campo attraverso tirocini progressivi e supervisionati
• Riflettere criticamente sulla propria pratica educativa

Questo percorso dovrebbe essere progettato in stretta connessione con i reali bisogni educativi che si manifestano nelle classi, evitando approcci troppo teorici o distanti dalla pratica quotidiana. Le università dovrebbero lavorare in sinergia con le scuole e i centri specialistici per costruire un curriculum che sappia coniugare rigore scientifico e operatività, sempre mantenendo al centro i bisogni educativi speciali degli alunni. La durata biennale consentirebbe inoltre di sviluppare quelle competenze trasversali fondamentali per un insegnante di sostegno: dalla gestione delle relazioni con il team docente alla capacità di adattare i materiali didattici, dalla conoscenza delle tecnologie assistive alle strategie per promuovere l’autonomia. Si tratta di aspetti che richiedono tempo per essere assimilati e fatti propri, e che non possono essere compressi in percorsi formativi troppo brevi. Le famiglie degli alunni con disabilità attendono da tempo questo salto di qualità nella formazione degli insegnanti di sostegno. Un percorso biennale strutturato rappresenterebbe finalmente la risposta a un bisogno che la scuola italiana non può più permettersi di ignorare: quello di avere docenti specializzati che siano veri professionisti dell’inclusione, preparati ad affrontare le sfide educative più complesse e a costruire percorsi significativi per tutti gli alunni, nessuno escluso”.

La posizione delle famiglie dinanzi alla specializzazione estera?

L’apertura a percorsi di specializzazione esteri, se non inserita in una politica formativa nazionale ben strutturata, rischia di creare più problemi che soluzioni, soprattutto per le famiglie più vulnerabili. Il rischio è duplice: da un lato, si alimenta l’idea che una qualifica straniera sia di per sé garanzia di successo, anche quando non è effettivamente spendibile nel contesto italiano; dall’altro, si indebolisce progressivamente il sistema formativo nazionale, privato di investimenti e fiducia, con conseguenze negative sull’equità e sulla coesione sociale.
Molti genitori, spinti dal desiderio di offrire ai propri figli le migliori opportunità, sono tentati di ricorrere a percorsi formativi internazionali, spesso senza una chiara consapevolezza delle reali prospettive occupazionali. Questo fenomeno genera due effetti perversi:
1. Disallineamento con il mercato del lavoro italiano: Alcune qualifiche estere, pur valide in altri contesti, non trovano un riconoscimento adeguato nel nostro Paese, lasciando i giovani in un limbo tra formazione e occupazione.
2. Marginalizzazione della formazione nazionale – Se le famiglie più avvantaggiate possono permettersi di investire in percorsi esteri, quelle con minori risorse economiche e culturali si ritrovano con un’offerta formativa interna sempre più impoverita, ampliando ulteriormente il divario sociale.
Per evitare che la specializzazione esterna diventi l’unica opzione percepita come valida, è essenziale potenziare la formazione italiana, rendendola:
– Più qualificata, con percorsi che garantiscano competenze realmente spendibili;
– Più integrata, attraverso un dialogo costante tra scuola, università e mondo del lavoro;
– Più equa, con politiche attive che riducano le disparità territoriali e socioeconomiche.
In particolare, è cruciale sviluppare una classe di sostegno strutturata, che accompagni studenti e famiglie nelle scelte formative, contrastando la dispersione scolastica e garantendo a tutti un orientamento consapevole. Servizi di tutoraggio, mentoring e supporto psicopedagogico devono diventare pilastri del sistema, per evitare che le famiglie si affidino a soluzioni esterne per mancanza di alternative valide in Italia.
La vera sfida non è demonizzare la formazione estera, ma costruire un sistema nazionale che sia competitivo e attraente di per sé. Questo significa:
✔ Valorizzare i percorsi italiani, migliorandone la qualità e il riconoscimento;
✔ Rafforzare i servizi di orientamento, per guidare le famiglie verso scelte consapevoli;
✔ Investire nell’inclusione, affinché nessuno sia costretto a cercare altrove ciò che dovrebbe trovare nel proprio Paese.
Solo così si potrà garantire un futuro formativo e professionale solido alle nuove generazioni, senza dipendere da modelli esterni che, se non calibrati sul contesto italiano, rischiano di deludere le aspettative e acuire le disuguaglianze”.

Continuità didattica. Come si spiega il fermo dell’art. 14 del d.lgs 66/2017 fino ad oggi nonostante l’applicazione degli altri articoli?

“La mancata attuazione dell’articolo 14 del d.lgs. 66/2017, che stabilisce il principio della continuità didattica per gli alunni con disabilità, rappresenta una delle questioni più emblematiche della complessità del nostro sistema scolastico. Questo fermo non è casuale, ma il risultato di un intreccio di fattori che meritano una riflessione approfondita.

Innanzitutto, va considerato che l’articolo 14 non è una semplice disposizione tecnica, ma una norma che richiederebbe una riorganizzazione profonda del sistema di reclutamento e gestione del personale di sostegno. La sua applicazione comporterebbe infatti meccanismi di stabilizzazione del corpo docente che si scontrano con la realtà attuale, caratterizzata da precariato diffuso e turn over elevato. La complessità attuativa deriva proprio da questo: garantire continuità significa ripensare radicalmente il modello di assegnazione degli insegnanti, con tutte le implicazioni sindacali, contrattuali e organizzative che ciò comporta. Un altro elemento cruciale risiede nei tempi di adeguamento del sistema. Mentre altre disposizioni del decreto 66/2017 hanno trovato attuazione attraverso successivi provvedimenti, l’articolo 14 richiederebbe interventi più strutturali e di più lunga lena. Si tratta di una norma che non può essere applicata per decreto, ma che necessita di un vero e proprio cambio di paradigma nella gestione delle risorse umane della scuola, con tutte le gradualità che un simile processo richiede. Le priorità istituzionali hanno poi giocato un ruolo non marginale. Di fronte alla necessità di dare risposte immediate a questioni come la redazione del PEI o la formazione dei docenti, la continuità didattica – che pure rappresenta un diritto fondamentale degli alunni con disabilità – è stata probabilmente percepita come un obiettivo a più lungo termine, rinviabile in attesa di condizioni più favorevoli. Non va infine sottovalutato l’aspetto economico. Stabilizzare gli insegnanti di sostegno significa inevitabilmente aumentare la spesa corrente del sistema scolastico, in un contesto di risorse sempre limitate. Questo spiega perché l’attuazione dell’articolo 14 sia stata finora prudente, legata alla disponibilità di fondi e alla programmazione finanziaria pluriennale. Tutto ciò non giustifica, ma spiega perché una norma così importante sia rimasta non applicata, mentre altre disposizioni dello stesso decreto hanno trovato attuazione. La questione della continuità didattica rimane così un banco di prova fondamentale per misurare la reale volontà del sistema di garantire un’inclusione scolastica di qualità, che vada oltre le emergenze e si strutturi in interventi organici e duraturi”.

Il ruolo della FISH nel D.M. 32?

“La FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) ha svolto un ruolo determinante nell’elaborazione del D.M. 32, imprimendo una svolta significativa alle politiche per l’inclusione scolastica. Grazie al suo costante impegno, il decreto ha introdotto una disposizione rivoluzionaria: la possibilità per le famiglie di richiedere formalmente la riconferma dello stesso docente di sostegno supplente per l’anno successivo. Questa innovazione normativa rappresenta un vero e proprio cambio di paradigma, poiché rompe finalmente il circolo vizioso della discontinuità educativa che per anni ha caratterizzato il percorso scolastico degli alunni con disabilità.

L’azione della FISH ha prodotto un altro risultato fondamentale: il potenziamento dei crediti formativi per la specializzazione sul sostegno. Questa misura, frutto di un attento lavoro di mediazione, ha consentito di aprire nuove sinergie tra INDIRE e il sistema universitario, creando un circuito virtuoso tra ricerca accademica, formazione specialistica e pratica didattica. L’integrazione tra questi mondi, tradizionalmente separati, sta producendo un innalzamento tangibile della qualità della preparazione degli insegnanti di sostegno, con ricadute immediate sull’efficacia degli interventi educativi. L’approccio della FISH si è dimostrato particolarmente lungimirante nel coniugare due esigenze fondamentali: da un lato la tutela immediata del diritto alla continuità didattica, dall’altro l’investimento strutturale sulla qualità della formazione. Questa doppia strategia – che combina interventi urgenti con una visione di medio-lungo periodo – rappresenta oggi un modello per lo sviluppo di politiche inclusive realmente efficaci, capaci di rispondere sia alle emergenze del presente che alle sfide del futuro”.

Graduatorie e chiamata diretta. In riferimento alla dicitura “docente precario” la scuola prevede un’infinità di graduatorie per lo stesso posto a tempo determinato. Ad esempio: lo stesso incarico preve l’assegnazione del docente di ruolo specializzato che ne fa richiesta per avvicinamenti temporanei alla propria famiglia (spesso caregiver di figli con disabilità) e il docente precario non ancora in ruolo. Un diritto che potrebbe ledere altri diritti all’interno dello stesso quadro dell’inclusione, la FISH ha previsto uno scenario di questo tipo e come equilibrare le parti?

Nel dibattito sull’inclusione scolastica, un principio emerge con assoluta chiarezza: gli alunni e le alunne con disabilità hanno diritto a un percorso formativo stabile e coerente. Questo diritto, riconosciuto dalla Convenzione ONU e dalla legislazione italiana, rappresenta il fulcro di qualsiasi discorso serio sull’inclusione. La realtà, tuttavia, racconta una storia diversa. Troppi studenti con bisogni educativi speciali si trovano ad affrontare cambiamenti improvvisi di insegnanti, interruzioni nei progetti educativi e la costante necessità di ricominciare da capo. Questa instabilità non è solo un disagio organizzativo, ma una vera e propria violazione del diritto all’istruzione, che per gli alunni con disabilità si traduce in:
– Perdita di competenze faticosamente acquisite
– Frantumazione del rapporto educativo, elemento chiave per l’apprendimento
– Sovraccarico per le famiglie, costrette a colmare continuamente le lacune del sistema
Le cause di questa emergenza silenziosa affondano le radici in meccanismi che privilegiano la gestione burocratica sulle esigenze educative:
– Assegnazioni annuali che ignorano la necessità di continuità
– Graduatorie che non valorizzano la specializzazione e l’esperienza maturata con lo studente
– Disparità territoriali che creano ingiustificate differenze nell’accesso al sostegno

Di fronte a questa situazione, non si tratta di scegliere tra i diritti dei docenti e quelli degli studenti, ma di riconoscere che un docente di sostegno precario, ma stabile nel suo ruolo, serve meglio sia la scuola sia lo studente.
La soluzione non può limitarsi a interventi tampone. Servono scelte coraggiose che:
1) Garantiscano la stabilità del rapporto educativo, consentendo al docente di seguire lo studente per l’intero ciclo scolastico quando necessario
2) Rafforzino la formazione specifica, evitando l’immissione di personale non specializzato
3) Superino le disparità territoriali, perché il diritto all’istruzione non può dipendere dal luogo di residenza
I numeri dell’emergenza parlano chiaro: secondo recenti studi, oltre il 60% degli alunni con disabilità cambia insegnante di sostegno durante l’anno scolastico, mentre meno del 15% riesce a mantenere lo stesso docente per due anni consecutivi. Questa situazione, oltre a compromettere i progressi educativi, genera un comprensibile senso di frustrazione nelle famiglie e negli stessi insegnanti. Riconoscere la continuità didattica come diritto fondamentale non significa creare privilegi, ma semplicemente applicare il principio costituzionale di uguaglianza sostanziale. Un’alunna con autismo, uno studente con disabilità motoria o un bambino con difficoltà cognitive hanno bisogno della stessa stabilità che naturalmente riconosciamo a tutti gli altri studenti. La sfida che abbiamo di fronte è culturale prima che organizzativa: passare da un’inclusione sulla carta a un’inclusione vissuta, che riconosca i tempi e le modalità di apprendimento di ciascuno. Questo cambiamento non può attendere, perché ogni anno scolastico perso nella discontinuità è un pezzo di futuro che sottraiamo a chi ha già troppi ostacoli da superare. Il percorso è chiaro: più formazione, più stabilità, più ascolto dei reali bisogni educativi. Solo così potremo dire di aver costruito una scuola veramente inclusiva, dove nessuno sia costretto a ricominciare da zero ogni settembre”.

Diagnosi e numero delle cattedre. La regolamentazione prevede una continuità didattica sulla porzione di organico maggiore: quella cosiddetta “di fatto” mentre l’organico di diritto resta fermo al 2015 con flebili situazioni oscillanti tra tagli e incrementi modesti nonostante il tangibile incremento delle diagnosi. La continuità ha realmente visto la stabilizzazione con la chiamata diretta del personale precario?

La questione della continuità didattica per gli alunni con disabilità rappresenta uno degli snodi più problematici del nostro sistema scolastico, soprattutto in un contesto di crescente complessità educativa e aumento delle certificazioni. Nonostante i ripetuti tentativi di riforma, il modello attuale mostra evidenti criticità strutturali che ne minano l’efficacia, lasciando irrisolto il conflitto tra esigenze organizzative e diritto all’inclusione. Al cuore del problema si trova la discrepanza tra organico di diritto e organico di fatto. L’organico di diritto, calcolato su dati ormai obsoleti risalenti al 2015, non riflette l’attuale panorama educativo, caratterizzato da un costante incremento delle diagnosi. Questa rigidità amministrativa costringe le scuole a colmare il divario ricorrendo massicciamente al precariato, con docenti assegnati spesso su base annuale. Il risultato è un sistema che, pur formalmente garantendo la copertura dei posti, di fatto sacrifica la qualità dell’intervento educativo sull’altare della mera contingenza numerica. L’idea che un alunno con disabilità possa costruire un rapporto stabile con il proprio insegnante di sostegno si scontra con una realtà fatta di cambiamenti frequenti e ricominciamenti continui. La natura precaria di molti incarichi, unita alla mobilità del personale, trasforma quello che dovrebbe essere un diritto in un privilegio per pochi. Questa discontinuità non è solo un problema organizzativo, ma ha concrete ripercussioni pedagogiche: ogni cambio d’insegnante significa interrompere un processo educativo personalizzato, con evidenti ricadute sull’apprendimento e sullo sviluppo dell’alunno. Gli sforzi legislativi degli ultimi anni – dalla Buona Scuola ai concorsi straordinari, fino all’istituzione delle Graduatorie Provinciali Speciali – hanno cercato di dare risposte al precariato senza però risolvere il nodo della continuità. La chiamata diretta, inizialmente concepita come strumento per favorire la stabilità, si è rivelata effimera, abbandonata dopo pochi anni tra polemiche e contraddizioni. Gli attuali meccanismi di reclutamento, pur rappresentando un progresso rispetto al passato, continuano a privilegiare la logica dell’emergenza rispetto a quella della progettualità. L’esperienza dimostra che non bastano aggiustamenti marginali a un sistema profondamente squilibrato. Servirebbe invece:
– Un aggiornamento periodico degli organici che tenga conto dell’effettiva evoluzione dei bisogni educativi
– Meccanismi di stabilizzazione che consentano ai docenti di seguire gli alunni per l’intero ciclo scolastico quando necessario
– Un ripensamento delle modalità di formazione e selezione degli insegnanti di sostegno
In conclusione, la continuità didattica nel sostegno rimane oggi più un auspicio che una realtà consolidata. Mentre il sistema continua a oscillare tra emergenze e provvedimenti tampone, sono gli alunni con disabilità a pagare il prezzo più alto di questa incertezza. Senza un cambio di prospettiva che ponga al centro la qualità dell’inclusione anziché la semplice copertura dei posti, rischiamo di vanificare anni di battaglie per i diritti delle persone con disabilità. La sfida che ci attende non è tecnica, ma culturale: riconoscere che dietro ogni numero c’è un volto, una storia, un diritto che aspetta ancora di essere pienamente realizzato”.

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