Dire con il linguaggio del non-dire: da Giuli a Nichi Vendola
Dire con il linguaggio del non-dire: da Giuli a Nichi Vendola

Il ministro Alessandro Giuli, nelle settimane scorse; il governatore della Puglia, Nichi Vendola, qualche anno fa, vanno visti, su opposti versanti politico-partitici, come due (analoghi) campioni di quel linguaggio del non-dire, utilizzato, da entrambi, per dire quello che (non) c’è da dire. Esempi brillanti della (non) comunicazione, nell’era post-babele. Entrambi nipotini di quell’Aldo Moro, che di linguaggio astruso, barocco e non comunicativo, fu cultore di prim’ordine, l’inventore, per citarne solo una, della barocchissima metafora delle «convergenze parallele» (con una sola differenza, però, rispetto agli odierni “nipotini”, che Aldo Moro, evidentemente, conosceva (e sapeva applicare) il verso di Dante, secondo il quale occorre stare «ne la chiesa / coi santi, e in taverna coi ghiottoni», e, quindi, sapeva regolarsi, a seconda degli interlocutori, nella scelta del lessico, nella costruzione della frase e del periodo).
Non c’è pace, dunque, per l’italico ministero della cultura. Tra veleni, dimissioni, dossieraggi, pruriti sessuali, siluramenti, linciaggi omofobi, conflitti d’interessi e sospetti d’ogni sorta, è sempre in prima pagina, sui rotocalchi e sui media nazionali e internazionali. Però, una cosa è certa: con questa gestione della “cultura”, adesso, in Italia, si mangia. Eccome, se si mangia. Perlomeno, mangiano giornali e televisioni, social media e opinionisti, visto il gran daffare, che da mesi e mesi hanno, per confezionare articoli su articoli, servizi su servizi, dossier su dossier, atti a soddisfare la morbosa curiosità (indotta) dei cittadini, che, ovviamente, hanno, per parte loro, il diritto di sapere.
In questa sede, in questo mio (modestissimo) intervento, il gossip non entra (per scelta). Piuttosto, a me preoccupa, a titolo scientifico, il linguaggio utilizzato, la costruzione della frase, e quella del periodo, per gli interventi pubblici dell’attuale ministro Alessandro Giuli (e di quelli dell’allora governatore pugliese Nichi Vendola). Possibile che il grado della italica comunicazione, nella declinazione istituzionale, debba oscillare tra il gergo della Gen Z (anch’esso di difficile decifrazione e comprensione), e la grottesca «supercazzola», di turno? Gi interventi (dottissimi) dell’ex governatore Nichi Vendola, stimolarono, a suo tempo, in terra di Puglia, la fantasia comico-sarcastica, dapprima, del duo Toti e Tata, e, successivamente, del genio creativo di Cecco Zalone, pugliese di nascita ma napoletano di finzione (almeno agli inizi della sua irresistibile carriera). I recenti interventi pubblici del ministro Giuli hanno fatto il giro del web, suscitando analoga ilarità e sfottò. Certo, mi rendo conto che, tanto per citare nuovamente Dante, la complessità dell’universo non possa essere espressa «da lingua che chiami mamma o babbo», e che quindi, necessariamente, occorra una certa proprietà lessicale, ma anche una altrettanta alta capacità di argomentazione e di costruzione della frase e del periodo, che superino i due righi, e la semplicità della comunicazione (banalmente) quotidiana. Però, così facendo, la distanza tra la politica (che sia essa regionale, o nazionale) e la gente comune, quella che riesce a decifrare a stento i linguaggi di strada, e che non si avvicina per niente alle alte sfere della comunicazione funambolica dei “nipotini” di Aldo Moro, e che, ancor più a stento, riesce a conciliare il pranzo con la cena, ebbene, tale distanza aumenta a dismisura, proprio a partire dalla (non) comunicazione. Bisognerebbe trovare una via di mezzo, sì, un «giusto mezzo», come già suggerivano i nostri “umanisti”, nel Quattrocento, tra lo slang becero giovanilistico, e la (inarrivabile) «infosfera globale», della vuota supercazzola.