Docenti di sostegno, la guerra dei titoli esteri: ora interviene anche l’Europa
Docenti di sostegno, la guerra dei titoli esteri: ora interviene anche l’Europa

a cura del Prof.G. Marco Bencivenga
Una raffica di sentenze del TAR del Lazio boccia sistematicamente i dinieghi del Ministero
dell’Istruzione ai titoli conseguiti all’estero. E ora anche la Commissione Europea dichiara
“non conformi” le procedure italiane. Migliaia di insegnanti sono intrappolati in un limbo,
ma è ancora realizzabile una proposta di riforma per sbloccare l’impasse ed evitare una
sanzione UE.
ROMA – È una guerra di trincea, combattuta a colpi di ricorsi e sentenze, quella che vede
contrapposti da anni migliaia di insegnanti specializzati sul sostegno e il Ministero dell’Istruzione e
del Merito (MIM). L’oggetto del contendere è il riconoscimento dei titoli conseguiti in altri Paesi
dell’Unione Europea, su tutti la Romania. Un flusso continuo di docenti, dopo aver ottenuto la
qualifica all’estero, si vede respingere la domanda da parte degli uffici ministeriali, finendo in un
limbo che può durare anni.
La situazione è però chiara, almeno nelle aule di tribunale. Solo nella primavera del 2025, tre
sentenze gemelle del TAR del Lazio (la n. 10083, la n. 10675 e la n. 10925) hanno nuovamente e
duramente censurato l’operato del Ministero, annullando i dinieghi e definendoli illegittimi. Le corti
amministrative, seguendo le indicazioni già tracciate ai massimi livelli dal Consiglio di Stato,
confermano che l’approccio del MIM è sistematicamente viziato.
Il “muro di gomma” del Ministero: le motivazioni sconfessate dai giudici
Ma perché il Ministero continua a respingere queste domande? Le sentenze offrono un quadro
preciso delle motivazioni, puntualmente smontate dai giudici.
La non validità del Titolo: spesso il diniego si basa sull’idea che il titolo estero non sia pienamente
“abilitante” nel suo Paese d’origine. Una tesi che il TAR ha definito infondata, ribadendo che se un
titolo permette di insegnare in Romania, deve essere considerato valido per il riconoscimento in
Italia, come previsto dalla normativa europea.
La incolmabile differenza: un’altra motivazione ricorrente è la presunta “incolmabile differenza” tra
la formazione italiana e quella estera. Anche in questo caso, i giudici hanno parlato di giudizi
“apodittici e scarsamente argomentati”.
Il documento mancante: in altri casi, come quello deciso dalla sentenza n. 10925, l’intero processo
si blocca per la mancanza di un singolo attestato specifico, definito dai giudici “utile ma non
necessario”.
Vizi di procedura: a queste critiche di merito si aggiungono gravi vizi procedurali, come la mancata
comunicazione del “preavviso di rigetto”, un atto obbligatorio che permette al cittadino di difendersi
prima della decisione finale.
Sotto osservazione da Bruxelles: la bocciatura della Commissione Europea
E il caso ora non è più solo italiano. Sul caos dei riconoscimenti è intervenuta direttamente anche la
Commissione Europea, mettendo sotto osservazione l’operato del Ministero. In una nota ufficiale,
Bruxelles ha sottolineato come l’Italia stia violando le regole comunitarie.
Secondo la Commissione, le decisioni sulle domande di riconoscimento dovrebbero essere adottate
entro quattro mesi, un termine che le autorità italiane hanno “di gran lunga superato”. Nonostante
un decreto-legge italiano del maggio 2024 mirato a risolvere i ritardi, la Commissione ha ritenuto
che fossero necessari “ulteriori sforzi”.
La tensione è salita il 17 febbraio 2025, quando Bruxelles ha rivolto “informalmente alcune
preoccupazioni alle autorità italiane”, aprendo una “finestra di dialogo” che sa di ultimatum. Il
giudizio finale è inequivocabile: il trattamento delle domande da parte dell’Italia “non è conforme
alle norme della direttiva 2005/36/CE”.
Una proposta per uscire dalla palude (ed evitare sanzioni)
In questo scenario, con la pressione che arriva anche dall’Europa, la necessità di una riforma non è
più un’opzione, ma un’urgenza. La soluzione per uscire dalla palude ed evitare una probabile
procedura d’infrazione europea potrebbe essere una proposta strutturale già elaborata da esperti del
settore.
Il cuore del progetto è la creazione di una Matrice di Corrispondenza da parte di una commissione
tecnica. Questa “super-tabella”, approvata una volta per tutte, assocerebbe a ogni titolo estero
standardizzato un pacchetto predefinito di misure compensative (come tirocini o esami mirati) per
colmare le reali differenze con la formazione italiana. Questo eliminerebbe la discrezionalità caso
per caso, fonte di arbitrio e contenzioso.
Accanto alla Matrice, la riforma prevede una forte spinta alla digitalizzazione tramite un portale
unico del riconoscimento. Una piattaforma online dove i docenti potrebbero presentare la domanda,
caricare i documenti e seguire in tempo reale lo stato della pratica. Il sistema, integrato con la
Matrice, potrebbe applicare in automatico le misure previste, riducendo i tempi da anni a pochi
mesi.
Non solo un diritto negato: il costo per la scuola e gli alunni
La battaglia per il riconoscimento non è solo una questione di principio. Ha un costo umano enorme
per migliaia di professionisti lasciati in sospeso. Ha un costo economico per lo Stato, costretto a
pagare le spese legali dopo ogni sconfitta in tribunale.
Ma il costo più alto lo paga la scuola, e in particolare gli alunni più fragili. Ogni ritardo nel
riconoscere un titolo significa un insegnante di sostegno qualificato in meno in cattedra, a danno
della continuità didattica e del diritto all’inclusione. La palla passa ora al Ministero, chiamato a una
scelta: continuare a combattere una guerra persa nelle aule di giustizia, rischiando una condanna
europea, o abbracciare finalmente una riforma di buonsenso che conviene ai docenti, alla scuola e
all’intero Paese