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Il mio nome è qualcuno. Parola di Cavaliere

Il Cavaliere è deceduto. C’è stato chi ha tirato un sospiro di sollievo o si è turato il naso, chi ha scagliato anatemi o si è vestito a lutto. L’uomo mi ha fatto ultimamente un po’ pena, mi ha fatto...

13 giugno 2023 12:04
Il mio nome è qualcuno. Parola di Cavaliere -
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Il Cavaliere è deceduto. C’è stato chi ha tirato un sospiro di sollievo o si è turato il naso, chi ha scagliato anatemi o si è vestito a lutto. L’uomo mi ha fatto ultimamente un po’ pena, mi ha fatto rimpiangere l’impareggiabile buontempone di un tempo: fra monellerie verbali e gesti apotropaici, i coglioni e i kapò, le patonze e il burlesque. L’epilogo di quasi trent’anni di berlusconismo vorrei perciò firmarlo un po’ in grotesque, un po’ in “farsesque”.   

Nel Medioevo si pensava che il nome fosse la diretta conseguenza della qualità portante (fisica, morale, comportamentale, etc.) di chi lo possedeva: nomina sunt consequentia rerum, secondo un vecchio andante accolto nella Vita nuova dantesca ma risalente alle Istituzioni di Giustiniano. Per farla breve: dimmi che nome hai e ti dirò chi sei. Così, giocando una volta tanto coi santi e lasciando stare i fanti (troppe guerre in corso, meglio tacere) ma non i cavalieri, Santa Lucia poté svolgere ottimamente il suo compito di protettrice della vista e San Domenico, come ci vien detto da Dante nella Commedia, poté ben ricevere il nome del possessivo di cui era tutto, il nome di Domenico per l’appunto, derivato dal possessivo di Dio (dominicus ‘appartenente al Dominus’).

Dai Santi all’Unto del Signore, si capisce, il passo è maledettamente breve. Se l’Unto per antonomasia ci ha salvati dal peccato originale, l’Unto-bis, che qualche miracolo l’aveva già compiuto, sarebbe potuto magari ancora riuscire – garantendoli  dal legittimo sospetto di San Pietro sulla rettitudine del loro agire, – a far conquistare più agevolmente ad alcuni dei suoi berluscones il Regno dei Cieli su questa terra. Avrebbero dovuto donargli in cambio il loro incondizionato amore, ma sarebbe forse bastato un semplice voto, secondo la migliore tradizione precettistica in materia di salvazione religiosa.

Il potere del nuovo Redentore (ma, fatti i conti di quel che detiene, gli si addice di più l’appellativo di Re-detentore) è stato incommensurabilmente più grande di quello dell’antico predecessore: il Dio uno e trino incarnatosi nel primo Unto è diventato, col secondo, il luogo fisico di più alta concentrazione di “io” (“io sono un moderato”, “il leader del Polo sono io”, “sono io il Presidente del Consiglio”, “io sono buono e bravo”, io, io, io…), ma sarebbe forse il caso di dire, mediaticamente parlando, il più potente ripetitore del proprio segnale che la storia recente del nostro paese ricordi. 

Silvio Berlusconi, il nome che ho fin qui evitato di pronunciare invano e che oso ora pronunciare a chiare lettere (anche perché, diciamocelo, rispetto al primitivo impronunciabile nome di Dio, si lascia piacevolmente scandire: sil-vio ber-lu-scon-ni), non è stato però soltanto il Cavaliere senza macchia e senza paura che il 26 gennaio 1994 decise di scendere in campo contro le sinistre che non credono più in niente o il finto-deferenziale Sua Emittenza (anche qui, forse meglio: Sue Numerosissime Emittenze), ma anche il Presidente-operaio. L’Unto del Signore si è scoperto essere unto del volgare grasso di fabbrica, a singolare rappresentazione di un Dio in versione coincidenza degli opposti già teorizzato in passato. 

Anche il nome di un così grande artefice, d’altronde, coniuga in modo sublime l’alto e il basso. L’alto di Silvius, che a onta della natività boschiva, o silvana (dal latino silva ‘selva’), è stato nientemeno che il figlio di Enea (da non confondere né con Romolo né con Remolo), con il basso del barlüsc ‘strabico’, vecchia voce del milanese e dintorni un tantino nobilitata dall’accrescitivo: Berlusconi, che sarebbe a dire, pressappoco, Strabiconi. 

Ma Berlusconi evoca anche i berlus-cloni, le imaginette viventi che dell’icona-matrice hanno riprodotto fedelmente parole, pensieri e azioni e, naturalmente, l’habitus. Quello di un tempo però: perché mentre i suoi bravi soldatini hanno continuato, fino alla fine, a vestire il completino della festa, e i suoi ministri almeno la giacca e la cravatta della Prima Repubblica, il capo si è sempre più vestito casual, tuta da jogging; polo e maglione annodato sulle spalle, magari, come in un vecchio vertice di governo sul risanamento dei conti pubblici (una mise rigorosamente blu, of course). 

Il Presidente-operaio, nella sua multiforme natura, si è così svelato Presidente-podista, in perfetto stile presidenziale americano. George Bush jr., al tempo, ci avrebbe pensato due volte prima di annodarsi una maglia sulle spalle: negli Stati Uniti è infatti indice di “aperta comunicazione di omosessualità” (P. Balboni, Parole comuni culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Venezia, Marsilio, 1999, p. 62). Ma può anche darsi, chissà, che il bravo ex-premier, nella sua infinita bontà, abbia allora pensato, Gianfranco Fini permettendo (e presagendo i pascaliani sviluppi), di lanciare un primo messaggio di pace ai membri della comunità gay italiana. Per poterli condurre, col tempo, sulla via della redenzione e consentirsi così la realizzazione di un altro dei suoi tanti sogni a occhi aperti. Quei sogni a occhi aperti che, fino a ieri, ha continuato a far fare a milioni di italiani.

Fino a ieri?

 

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