La Voce della Scuola

Il mio Pasolini premiato sotto il segno di Giancarlo Siani, giornalista vittima di mafia

Conosco l’antico adagio che recita «chi si loda, si imbroda», ma, ciononostante, consapevole di correre il rischio, proverò a spiegare perché sono (tanto) orgoglioso del Premio Nazionale «Virgilio

A cura di Trifone Gargano
08 gennaio 2024 20:47
Il mio Pasolini premiato sotto il segno di Giancarlo Siani, giornalista vittima di mafia -
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Conosco l’antico adagio che recita «chi si loda, si imbroda», ma, ciononostante, consapevole di correre il rischio, proverò a spiegare perché sono (tanto) orgoglioso del Premio Nazionale «Virgilio», che mi è stato assegnato, per la saggistica, per il libro PPP. Pasolini Prima di Pasolini, Edizioni Radici Future (2022). Innanzitutto, per le stesse ragioni per le quali, due anni fa, d’intesa con l’editore, Vito Antonio Loprieno, decisi di scrivere un libro sul Pasolini semi-sconosciuto, celebrandone il centenario. Il Pasolini professore, per esempio, che già ottant’anni fa, in alcuni articoli “minori” (poco, o per niente studiati dalla grande critica), poneva il problema di ridurre, nella nostra scuola, le nozioni, a tutto vantaggio delle educazioni (all’ecologia, alle tasse, alla sessualità, alla gestione della sessualità e dei sentimenti), ovviamente, senza essere ascoltato. Pasolini professore scriveva, già allora, parole che appartengono al lessico pedagogico di oggi, e cioè: gli alunni vanno «emozionati» e «incuriositi». Un pensiero e una prassi pedagogica, occorre scriverlo, con dolore, che rappresentano, sotto tanti profili, ancora una sfida, da raggiungere, e non, piuttosto, una realtà di classe. In una recente conversazione, con un caro amico maestro (maestro con la M maiuscola), in pensione da qualche anno, notavo, grazie a lui, che il problema della scuola italiana è che …non è «scuola»; …non è sistema; …non è comunità. Tanto semplice, quanto sconcertante. Tutte le esperienze di classe, e tutte le prassi più sperimentali e innovative, muoiono nell’orizzonte ristretto dell’aula dove sono nate e dove hanno vissuto. La diffusione delle così dette «buone prassi» resta una pia illusione. Rarissimi (e molto circoscritti) sono, infatti, i casi di esperienze didattiche innovative che diventino «sistema». Nel mio PPP, dunque, ho provato a far emergere proprio questa aspetto dell’intellettuale (e del maestro) Pier Paolo Pasolini. Scrittore a schiena dritta, intellettuale civile, poeta raffinato e dolente, docente appassionato e appassionante. Eppure, in tutta Italia, solo tre scuole sono a lui intitolate, a fronte di migliaia e migliaia di scuole, invece, intitolate a quel gran maestro di opportunismo e di qualunquismo che fu Manzoni (abilissimo nel calcolo di convenienza, prudente fino all’ignavia).

 

Ho provato a raccontare, sempre nel mio PPP, il Pasolini giornalista sportivo e teorico del «calcio», in quanto linguaggio, codice espressivo, del mondo contemporaneo. Lo sport come metafora per raccontare il nostro mondo, e le sue mille contraddizioni. Il calcio come ultimo rito sacro del nostro tempo, con i suoi discorsi fondati sui «podemi» (neologismo pasoliniano, a indicare le frasi e le proposizioni che danno vita al periodo, cioè, all’azione di gioco). Come docente e come studioso, sono impegnato, in sede accademica, in una riflessione condivisa intorno alla definizione del sotto-genere letterario («pop», e non di massa) della così detta «Letteratura dello sport», che ha, per il Novecento, proprio in Pier Paolo Pasolini uno dei capisaldi.

 

Ho provato a raccontare, inoltre, il Pasolini attento al dialetto, in quanto strumento espressivo delle classi popolari, impegnato non soltanto nella difesa dei dialettofoni, ma anche nella difesa ( e nell’inclusione sociale e culturale) delle minoranze, di tutte le minoranze (non solo di quelle linguistiche, o religiose, o di genere). Pochi giorni prima di essere assassinato, nel 1975, Pasolini partecipò, a Lecce, liceo classico «Palmieri», a un convegno – dibattito sul tema del dialetto nella scuola nazionale. Ovviamente, anche in quella circostanza, fu attaccato e criticato duramente dai professori presenti (sia accademici, che di scuola), impegnati, invece, ieri come oggi, tutti, a ghettizzare, a isolare, e a bocciare i dialettofoni. Fu anche attaccato per la sua provocazione di chiudere la scuola media unica, visti gli esiti disastrosi provocati da quella riforma, nel volgere del primo decennio della sua attuazione. Altre voci, in quegli stessi anni, o poco prima, ugualmente dissonanti, avevano tuonato contro i disastri e contro la selezione culturale, linguistica e sociale, della scuola media unica, così come essa veniva attuata in Italia. Erano state le voci di don Lorenzo Milani, che aveva dato vita al rivoluzionario esperimento della scuola di Barbiana; e quella del maestro artigiano Mario Lodi, che, nel 1970, aveva messo a nudo, con la pubblicazione delle sue esperienze didattiche, Il paese sbagliato, le deficienze di una scuola rigida, capace solo di escludere i più fragili. Per non dire di altre voci, come quella, per esempio, del linguista Tullio De Mauro; e di tanti altri.

 

Sono orgoglioso, dunque, per il premio ottenuto, e per aver contribuito, in piccola parte, con il mio PPP, alla diffusione dell’immagine di un intellettuale e di un maestro testimone critico del suo (e del nostro) tempo, coscienza libera. Ho girato l’Italia, nelle scuole (poche), e nelle piazze (molte), con quel mio libro.  Sono vieppiù orgoglioso perché quando sono andato a Napoli (precisamente, a Quarto), per ritirare il premio, ho preso atto, con gioia, che il contesto sociale e culturale di chi aveva selezionato il mio libro, non era composto da una giuria asfittica del (solo) mondo accademico (quasi sempre lezioso, autocelebrativo e ipocrita), ma da quello di una realtà come «Casa Mehari», fortemente impegnata nella lotta alla criminalità, e nella diffusione della cultura della legalità e del contrasto alle mafie. Mi sono sentito piccolo piccolo, dinanzi a quella splendida realtà di impegno civile, e, quindi, mi sono sentito come caricato di un onore aggiuntivo; senza averne merito, mi sono sentito parte di un grande progetto di riscatto civile del nostro Sud. «Casa Mehari», infatti, è un’associazione temporanea di scopo composta da «La Bottega dei Semplici Pensieri»; «La Quercia rossa»; «Artemide»; e «Dialogos». Il progetto culturale e sociale che mette assieme queste associazioni è denominato «ControVento – Contro la criminalità, verso la legalità. Associazionismo, Solidarietà, Cultura, Ambiente, Formazione». «Casa Mehari» è una villa, con giardino e piscina, confiscata alla criminalità, oggi, di proprietà del Comune di Quarto. «Mehari» era il modello dell’automobile sulla quale fu assassinato, per mano della camorra, il giornalista Giancarlo Siani (praticante giornalista, presso il quotidiano «Il Mattino», di Napoli), il 23 settembre del 1985, rientrando a casa.

 

Dedico il premio ottenuto alle ragazze e ai ragazzi incontrati in giro per l’Italia, nelle presentazioni del mio libro, alle loro domande, alle loro curiosità, ai loro sguardi (talvolta, tristi e spenti), alle loro paure, e ai loro sogni. Dedico, inoltre, il premio all’intero staff della casa editrice «Radici Future», di Bari, che ha permesso l’uscita del libro; una casa editrice impegnata, sin dalla sua nascita, nella diffusione della cultura della legalità, e nel contrasto della cultura mafiosa, per seminare, anche attraverso i piccoli e i grandi eventi del Festival «Legalitria», e di altri simili, semi di cultura civile. La letteratura per l’educazione civica, la letteratura per la costruzione di competenze di cittadinanza attiva, nel segno di Pier Paolo Pasolini professore, appunto. Una letteratura a schiena dritta. Letteratura e libri come semi di civiltà.

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