La “tolleranza” che portò al Fascismo
Non mancano, in casa Meloni, frequenti polemiche e incomprensioni, a causa di dichiarazioni bizzarre, o di uscite pubbliche discutibili, di questo o di quell’altro suo ministro, come, per esempio, le recenti affermazioni di Francesco Lollobrigida

Non mancano, in casa Meloni, frequenti polemiche e incomprensioni, a causa di dichiarazioni bizzarre, o di uscite pubbliche discutibili, di questo o di quell’altro suo ministro, come, per esempio, le recenti affermazioni di Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura, in questo Governo, e cognato della Meloni. Solo per questo duplice dettaglio mi son permesso di utilizzare l’espressione «in casa Meloni». L’ultima “sparata” dell’attivissimo ministro dell’Agricoltura, riguarda la presunta tolleranza che ci sarebbe stata, nel passato recente della storia d’Italia, nei confronti del terrorismo “rosso” (mi permetterei di aggiungere, ahinoi, anche, nei confronti del terrorismo “nero” stragista), culminata, tale tolleranza, sempre a detta del ministro Lollobrigida, con il rapimento, e poi con l’uccisione, di Aldo Moro (16 marzo, e 9 maggio del 1978). A parte l’estrema semplificazione, delle dichiarazioni del ministro Lollobrigida, in riferimento all’affaire Moro (utilizzo volutamente la parola «affaire», che è nel titolo del pamphlet che Leonardo Sciascia scrisse nel 1978, nel tentativo di decodificare e di comprendere quella tragica e oscura vicenda della storia politica italiana contemporanea, L’affaire Moro, appunto), da insegnante, vorrei ricordare al ministro della Repubblica, Francesco Lollobrigida, che se volessimo leggere la storia civile, etica e politica italiana più recente attraverso il paradigma interpretativo della «tolleranza», che genera certamente mostri, proprio perché non vede (o finge di non vedere) pericoli, e ben precise responsabilità, ebbene, allora, dovremmo partire dalla «tolleranza» colpevole del re d’Italia Vittorio Emanuele III di Savoia, che nell’ottobre del 1922, anziché firmare lo stato d’assedio, e ristabilire la legalità, nei confronti di una masnada in camice nere, con a capo Benito Mussolini e altri (quattro o cinque) baldi cialtroni, fu talmente tollerante che, non solo chinò la testa, ma, addirittura, diede al baldanzoso Mussolini l’incarico di formare il governo, consegnando la nazione e il popolo italiano alla lunga stagione della dittatura, che avrebbe condotto l’Italia nelle braccia di Hitler e della seconda guerra mondiale, con milioni e milioni di morti. Una responsabilità etica e politica, quella dei Savoia, dinanzi alla quale resteranno sempre inchiodati, al cospetto della Storia. Questa è stata, dunque, la prima grande tragica «tolleranza» del nostro Novecento, egregio signor ministro Lollobrigida. Questo è stato (ed è) il peccato originale dal quale emendarsi. Una «tolleranza» che portò al fascismo, e che fu consumata al vertice istituzionale più alto dello Stato italiano di allora, e che, negli anni precedenti, era stata anche praticata, tale «tolleranza», in periferia, in tutte quelle province d’Italia, dove, cioè, i Prefetti non intervennero mai, dinanzi alle violenze terroristiche dei mazzieri fascisti, dinanzi allo scempio delle sedi sindacali e partitiche devastate e distrutte, dinanzi ai corpi degli attivisti cattolici, liberali, socialisti e comunisti pestati, e uccisi (cito soltanto Piero Gobetti e don Minzoni, per non dire di Antonio Gramsci, o dei fratelli Rosselli, e di tanti altri, compreso quel don Luigi Sturzo, che dovette prendere la via dell’esilio, per mettere in salvo la vita). Dunque, Prefetti che non videro, o che finsero di non vedere, che non si accorsero di nulla, e che furono, invece, appunto, signor ministro, tolleranti, consegnando il Paese alla violenza squadristica.
Fra pochi giorni verrà celebrata la festa civile del papà, non solo in Italia, ma anche in tante altre parti del mondo, con tradizioni e modalità diverse, che affondano le loro radici in secoli e secoli di storia. Una nazione ha il diritto e il dovere di avere dei «padri», e delle «madri». Una comunità nazionale ha il diritto e il dovere di riconoscersi, proprio in quanto comunità collettiva, nel nome e nell’opera di (tanti) padri, e di (tante) madri. Questo diritto / dovere vale sia a livello individuale, che a livello collettivo. Il riconoscimento, dei padri e delle madri, se vissuto autenticamente, genera, a sua volta, un sentimento etico (e politico) strettamente collegato, che è quello della fratellanza, e della sorellanza. Genera, cioè, un sentimento di appartenenza inclusiva, tollerante e gioiosa. Secondo alcuni, infatti, si tratta di un vero e proprio «enzima sociale», capace di generare reazioni (politiche) buone, all’interno di un corpo sociale, il quale non si polarizzerebbe più intorno alla coppia divisiva (e violenta) di amico / nemico. Sotto questa luce, sotto la luce, cioè, della ricerca dei padri e delle madri per la nostra comunità nazionale italiana, con l’auspicio di uscire dalla ideologia del rancore, che, purtroppo, spesso muove le nostre azioni politiche, suggerisco di leggere (o di ri-leggere) il romanzo di Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita, uscito nel 2013, che indica in Piero Gobetti uno dei padri da ri-conoscere, da ri-scoprire, e da ri-collocare in quella ideale galleria della nazione italiana, che, con tanti altri nomi di padri e di madri, ci condurrebbe a un approdo di fratellanza e di sorellanza sociale (e politica) condivisa, e inclusiva.