La Voce della Scuola

Primo maggio, romanzo di Edmondo De Amicis

Primo maggio, romanzo di Edmondo De Amicis

A cura di Trifone Gargano
30 aprile 2025 12:00
Primo maggio, romanzo di Edmondo De Amicis -
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di Trifone Gargano

 

Nell’immaginario collettivo, il nome dello scrittore e giornalista Edmondo De Amicis (1846-1908) è legato quasi unicamente al romanzo Cuore, pubblicato in prima edizione dall’editore milanese Treves il 18 ottobre 1886 (primo giorno di scuola, per quell’anno scolastico), in forma di raccolta di episodi vissuti tra compagni di scuola, in un’aula elementare di Torino, ma con gli alunni che avevano differenti provenienze dalle regioni d’Italia, nella finzione letteraria di un diario scolastico, tenuto dall’alunno e io-narrante Enrico Bottini, destinato ad avere una larghissima fortuna editoriale, e numerose traduzioni in altre lingue. Di De Amicis, segnalo, almeno, altri due suoi romanzi, d’impianto sportivo. Nel 1897, dedicò al giuoco della palla con il bracciale,sport molto popolare in Italia, il romanzo intitolato Gli azzurri e i rossi. La palla con il bracciale fu a lungo, in Europa e in Italia, specie nelle regioni italiane del centro-nord, lo spettacolo atletico più popolare, maggiormente seguito. Testimonianza indiretta, ancora oggi, di questa sua popolarità sono gli sferisteri, sparsi in diverse città italiane (Torino compresa), costruiti proprio per celebrare degnamente i grandi eventi sportivi di quella disciplina. Ma una nuova era si affacciava, con l’arrivo degli sport inglesi, come, per esempio, il football, o il rugby, destinati, questi ultimi, a soppiantare il gioco della «palla con il bracciale», e a segnare, così, il tramonto di un’epoca, e la nascita, anche sotto il profilo sportivo, dell’età contemporanea. Risale al 1892 il romanzo di De Amicis Amore e ginnastica, ricco di humor e di acutezza psicologica, mista a malizia sensuale, se non a vera e propria spregiudicatezza sociale, dal momento che, con questo romanzo, egli era riuscito a ribaltare l’immagine, oramai cristallizzata, di un De Amicis tutto schiacciato su Cuore, e cioè sull’immagine di un autore mieloso e moraleggiante. Il critico letterario Luigi Cepparone ha parlato, a giusta ragione, dell’«altro De Amicis», a segnare, cioè, una forte cesura tra il primo De Amicis, quello di Cuore, e il secondo De Amicis, quello di romanzi come Amore e ginnastica e Primo maggio. Il mondo scolastico di Amore e ginnastica, infatti, è totalmente diverso da quello di Cuore. In questo romanzo, il mondo della scuola appare come un universo molto più complesso e ricco di contraddizioni. La vicenda narrativa di Amore e ginnastica ruota intorno a una maestra di ginnastica, appunto, la maestra Pedani, che è il perno di questo micro-mondo, innanzitutto, perché donna molto avvenente, fino al punto da avere tanti spasimanti, e poi perché maestra di ginnastica di rara bravura. Donna, e non uomo, in quel ruolo. Ecco ciò che dice di lei, nell’incipit del romanzo, il baffuto maestro di ginnastica Fassi, nonché redattore del giornale di ginnastica «Nuovo Agone»:

 

«È veramente una maestra di ginnastica. Non dico per scrivere: ciascuno ha le sue facoltà. E poi, nella ginnastica, come scienza, il cervello d’una donna non sfonda, si sa. Ma come esecutrice, non ce n’è un’altra. Già, madre natura l’ha fabbricata per quello: le ha dato le proporzioni schelettoniche più perfette che io abbia mai viste, una cassa toracica che è una maraviglia. L’osservavo giusto ieri nella rotazione del busto, che faceva per esperimento. Ha la flessibilità d’una bambina di dieci anni. E mi vengano a dire i signori estetici che la ginnastica sforma il bel sesso! Quella maneggia i manubri come un uomo, e ha il più bel braccio di donna, se lo vedesse nudo, che si sia mai visto sotto il sole. La riverisco.»

 

Edmondo De Amicis aderì al socialismo riformista in modo convinto a partire dal 1896, facendo sue le idee e le battaglie del leader socialista riformista Filippo Turati (1857-1932). Questa sua adesione al socialismo riformista è ravvisabile nelle sue opere successive, tra le quali va annoverato, appunto, il romanzo Primo maggio, che è del 1891, nel senso che De Amicis cominciò a scriverlo a partire da quella data, ma che ha visto la luce della prima pubblicazione soltanto cento anni dopo, nel 1980, per iniziativa del Comune di Imperia, sua città natale, nella cui Biblioteca è conservato il manoscritto del romanzo. Primo maggio rappresenta, sul versante letterario, la piena e convinta adesione di Edmondo De Amicis al socialismo italiano, fondendo ai principi e alle idee del socialismo scientifico e del materialismo storico le idee e i convincimenti di De Amicis in tema di bontà e di amore, come paradigmi interpretativi della realtà e dell’azione storico-politica. Il romanzo racconta le vicende di un maestro di Torino, città nella quale, a partire dal 1977, De Amicis aveva preso a risiedere, un certo Alberto, che aderisce, appunto, al socialismo, spinto dalla sua profonda onestà, e dalla constatazione dell’estrema povertà dei proletari, condannati a condurre una vita miserrima e bestiale. Per questa sua scelta ideologica, il maestro Alberto viene progressivamente isolato, abbandonato dalla famiglia, licenziato e minacciato di morte. Alberto, quindi, di dedicarsi in tutto e per tutto alla causa degli ultimi, e proprio durante una manifestazione in occasione della festa del Primo maggio, i soldati inviati in piazza dal Governo, per sedare le proteste operaie, lo feriscono a morte.

Commoventi le parole che Albero rivolge a suo figlio Giulio, che non riusciva a comprendere come mai suo padre fosse stato allontanato dalla sua stessa famiglia, con parole che suonano come un programma politico:

 

«Giulio, tu vedi quanta gente c’è intorno a te, che suda al lavoro per tutta la vita e non ne cava tanto da vivere umanamente, quanti milioni di ragazzi lasciati nell’ignoranza e nell’abbrutimento, e quante famiglie ridotte alla fame senza loro colpa; vedi quante diseguaglianze ingiuste, quante ire, quanti odi.

Ora, c’è modo di far sì che questa grande miseria sparisca tutta o in gran parte, che il lavoro non manchi a nessuno e diventi più umano per tutti. Che tutti i ragazzi siano istruiti e educati, che le disuguaglianze ingiuste scompaiano, che gli odi cessino, che la società diventi quasi un’immensa famiglia, in cui ciascuno, per interesse proprio, desideri il bene di tutti gli altri».

 

Questo romanzo, di grande impegno (e mole), è un vero e proprio j’accuse di De Amicis nei confronti di un sistema di produzione che affama e schiaccia in condizioni miserevoli di vita milioni di lavoratori, riducendoli, di fatto, al rango di schiavi. Ecco l’incipitdel romanzo:

 

Alle sette in punto il signor cavaliere Bianchini saltò giù dal letto e, affacciandosi alla finestra, ebbe due dispiaceri: vide che il cielo era tutto azzurro e che il muratore Peroni non era andato al lavoro. Questi se ne stava seduto, con la giacchetta sulle spalle, sullo scalino del suo uscio a vetri, in fondo al lungo terrazzino della casa bassa che formava un cortile triangolare con le due grandi ali dell’isolato. Diamine! Se festeggiava il 1° Maggio il Peroni, un operaio vecchio e tranquillo, c’era da credere che lo festeggiassero tutti gli operai di Torino.

Questo pensiero spiacevole fece dimenticare al signor Bianchini di esaminarsi il viso e la lingua allo specchietto per la barba, come faceva ogni mattina, compiacendosi della floridezza ammirabile, benché un po’ pingue, dei suoi sessant’anni.

Già in questa primissime righe del romanzo si coglie la visione ironica e disincantata dell’autore. Commoventi gli ultimi passaggi del romanzo, con Alberto, ferito a morte, per aver preso parte alla manifestazione operaia, che prova a rivolgere, dal giaciglio di morte, il suo ultimo saluto al figlioletto Giulio:

 

E sul suo viso bianco si dipinse un dolore infinito. E tentò d’esprimerlo, ma non poté. Soltanto cercò con la mano il capo del ragazzo, ve la pose sopra, e gli disse:

– Giulio… ricordati… io t’ho insegnato…

Ma non poté proseguire e chiuse gli occhi.

Ben altre, oggi, nell’era della globalizzazione, sotto la complicazione imposta dalla sconsiderata «guerra dei dazi», avviata dal neo eletto presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, le urgenze del mondo del lavoro (o del non-lavoro), da raccontare. Dal secondo dopoguerra, e per tutti gli anni Ottanta del secolo scorso, il lavoro aveva trovato in scrittori come Bianciardi, Volponi, Parise, Silone, Mastronardi, Strati, Di Ciaula, e tanti altri, i propri narratori. E oggi? Al tempo del lavoro precario, del lavoro a progetto, del lavoro che non c’è, del lavoro nero e flessibile, della riforma (o contro-riforma) dell’articolo 18, della new economy, e della delocalizzazione globale, esiste piùuna generazione di (giovani) narratori, capaci di raccontare il lavoro (o il lavoro che non c’è)? Oggi, chi riesce a raccontare i sogni, la rabbia, i tic, le manie, le speranze, le delusioni, le frustrazioni dei lavoratori di terzo Millennio?

Il lavoro, sotto l’incalzare della globalizzazione e della de-localizzazione, ha cambiato radicalmente pelle, per farsi ogni giorno sempre più precario (anche se la Confindustria utilizza l’eufemismo «flessibile», lavoro flessibile è, infatti, l’espressione eufemistica che nasconde la progressiva perdita delle garanzie costituzionali del lavoratore). All’inizio, fu la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; poi, giunse il Job act del governo presieduto da Matteo Renzi, nel 2014. In anni più recenti, dal marzo del 2020 a oggi, causa pandemia da Covid-19, il lavoro ha nuovamente cambiato pelle, ovviamente, in peggio, facendosi virtuale, lavoro a distanza, lavoro online. Ecco, qui di seguito, una sintetica mappa (senza alcuna pretesa di esaustività) degli autori che hanno provato, oggi e da prospettive differenti, a raccontare, con stili e con linguaggi diversi, questa nuova condizione del lavoro precario (o flessibile):

 

Alessandro Leogrande, con Uomini e caporali (2008), ha proposto un (drammatico) reportage sui nuovi «schiavi» delle campagne del Sud

Omar di Monopoli, con Ferro e fuoco (2008), ha narrato, con ritmi da thriller molto teso, di nuovi «schiavi», nella Puglia del pomodoro, inventando, da grandissimo narratore qual è, appunto, Omar di Monopoli, che ha trovato felicissima conferma in tanti altri romanzi successivi, un pastiche linguistico, tra dialetto e italiano, interessante e molto espressivo, capace di ribaltare il tradizionale cliché tra lingua nazionale e dialetto (senza cadere nel coloristico, nella macchietta dialettale)

Mario Desiati, con Ternitti (2011), adottando la forma tradizionale del romanzo, ha raccontato di lavoro che non c’è, e di lavoro che, se c’è, come nel caso di Taranto (e dell’ex ILVA), pone mille interrogativi sui temi della difesa e della tutela della salute pubblica.

Sono come tu mi vuoi, libro collettivo pubblicato dagli Editori Laterza, sulla multiforme realtà dei così detti lavori atipici di oggi Francesco Dezio, con Nicola Rubino è entrato in fabbrica (2004), ha saputo rilanciare il tema della «grande fabbrica», pur nel mutato contesto post-industriale del lavoro precarizzato (e globalizzato) odierno

Michela Murgia, con Il mondo deve sapere (2010), ha denunciato, in toni grotteschi, la condizione lavorativa presso i call center, in perenne oscillazione tra precariato e sfruttamento

Andrea Bajani, con Cordiali saluti (2005), ha messo in scena le vicende di un Killer, che scrive lettere di licenziamento ben curate, pirotecniche e appassionate, da un punto di vista espressivo e linguistico (quasi fossero lettere d’amore); dello stesso Bajani, segnalo anche Mi spezzo ma non m’impiego(2006), una sorta di viaggio-guida nel mondo del lavoro flessibile

Giorgio Falco, Pausa caffè (2004): moltitudine di vociprovenienti dall’universo magmatico del «lavoro-non-lavoro» (un «inferno» senza speranza), sperimentando linguaggi e codici espressivi inediti.

Giuseppe Culicchia, con Tutti giù per terra (1994), ha messo in scena il «precario», tra insicurezze e manie.

Edoardo Nesi, Storia della mia gente (2011), ha narrato (tra romanzo e saggio, o trattato scientifico) della fine dell’illusione del benessere in Italia.

 

Il lavoro, nelle forme del precariato (il più delle volte, senza tutela, e senza sicurezza, con modalità di autentico sfruttamento di manodopera gratuita), è entrato perfino nella scuola italiana, sotto forma di «alternanza» scuola lavoro (oggi, definita con l’acronimo PCTO, Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento), in virtù della così detta «Buona Scuola», o legge 107/2015, voluta, anche questa, dal governo Renzi. Il 18 gennaio 2022, in un’azienda di costruzioni meccaniche della provincia di Udine, presso la quale lo studente Lorenzo Pirelli, 18 anni, frequentante l’ultimo anno di corso del suo Istituto superiore, è morto per un incidente in fabbrica, schiacciato da una barra d’acciaio di 150 kg. Gravissimo episodio di una lunga serie di incidenti (sottovalutati), avvenuti nel corso degli anni, che hanno visto come vittime studentesse e studenti, da sommare alle centinaia e centinaia di morti sul lavoro, registrati giornalmente. Gli studenti in stage, in percorsi PCTO, vengono visti (e trattati) dalla aziende come manodopera gratuita. Quasi a dire, tragicamente, che lo studente, negli ultimi anni del suo percorso di formazione, deve sperimentare, sulla propria pelle, l’esperienza del lavoro flessibile, del lavoro selvaggio, senza tutele, e a rischio, precario e sotto-pagato che li attende una volta usciti dalla formazione. Se invece si provasse a immaginare, a scuola, anziché a queste esperienze di sfruttamento, a percorsi di conoscenza e di commento critico dello Statuto dei lavoratori, compresi gli articoli della Costituzione italiana che regolano il lavoro e che tutelano i lavoratori, un’analisi puntuale della Legge 30/2003, e di tutte le sue successive modifiche e integrazioni, con l’avvenuta polverizzazione delle tipologie di contratto di lavoro, forse, si renderebbe un servizio civico altamente formativo per le nostre studentesse e per i nostri studenti, senza mandarli allo sbaraglio nelle aziende.

 

Come sembra lontanissima (anni e anni luce) l’Italia di oggi, da quella che emergeva nelle poesie di Gianni Rodari (1920-1980): I colori dei mestieri…

 

Io so i colori dei mestieri:
sono bianchi i panettieri,
s’alzano prima degli uccelli
e han farina nei capelli;
sono neri gli spazzacamini,
di sette colori son gli imbianchini;
gli operai dell’officina
hanno una bella tuta azzurrina,
hanno le mani sporche di grasso:
i fannulloni vanno a spasso,
non si sporcano un dito
ma il loro mestiere non è pulito.

 

Sentimenti tra nostalgia, per un mondo che non c’è più, e ingenuità del poeta, che dovremmo recuperare, in mondo sempre più caratterizzato dal cinismo e dalla solitudine. Perfino un cantastorie come Umberto Tozzi, nel lontano 1991, scriveva, nella canzone Gli altri siamo noi, la frase (profetica) «famiglie di operari licenziate da robot». Sembra archeologia industriale la paginetta seguente, tratta da Tuta blu, di Tommaso Di Ciaula, edito per la prima volta nel 1978 da Feltrinelli, nella quale lo scrittore operaio pugliese raccontava le ire, i ricordi, e i sogni di un operaio del Sud d’Italia:

 

Oggi sono tornato in officina dopo una settimana di malattia. Febbre che saliva e che scendeva, catarro che usciva nero con il nero delle seppie. Non parliamo della gola, sembrava che avessi due pietre al posto delle tonsille. Il naso sempre chiuso. Potevo stare altri giorni in malattia, ma ho preferito tornare in fabbrica. Poi parlano di assenteismo, che l’operaio non ha coscienza. Al contrario, siamo coscienti e anche pazienti. In officina lavoriamo in ambienti che spaventerebbero l’ultimo degli animali. Mi risulta che mucche e galline vivono spesso in ambienti puliti, freschi d’estate e caldi d’inverno; anche la musica hanno. Noi non abbiamo un bel  niente. Durante l’estate ci hanno messo finalmente i “torrini” dei grossi ventilatori che aspirano l’aria. Per averli abbiamo dovuto aspettare circa dodici anni, poi non servono a granché, fanno soltanto un rumore ruuuuur ruuuuuur rooooor che sembrano degli aeroplani.

Stasera è entrato in fabbrica il capo delle pubbliche relazioni, quello che porta a spasso tra i torni i turisti: inglesi, francesi, slavi, turchi, giapponesi, marocchini… Tutti qua dentro li porta. Questi di stasera sembravano tedeschi, guardavano tutto il paesaggio, uno si è fermato vicino al mio tornietto.

 

Desidero chiudere con la favola moderna di Agapito Malteni il ferroviere, di Rino Gaetano, del 1974, canzone-ballata liberamente ispirata a La locomotiva di Francesco Guccini, che era del 1972. Agapito, come il macchinista della locomotiva di Guccini, per protesta, decide di dirottare il suo locomotore. [https://www.youtube.com/watch?v=zy4M6su9oNY]

 

In un gioco di specchi e di rimandi, con contadini che si fanno operai, abbandonano i campi e la loro miserevole vita nei paesini assolati del Sud, per mettersi in treno e tentare la fortuna nelle fredde città del Nord Italia, sistemandosi in anonimi quartieri, scoprendo di vivere destini ugualmente miserevoli,  suggerisco anche una canzone di Pierdavide Carone, Auè, del 2010. 

[https://www.youtube.com/watch?v=IlEPfxmd2BA]

 

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