La Voce della Scuola

"Zitti e a casa": la frase di Vecchioni riapre il dibattito su scuola e famiglie. Ma il problema è più profondo

“I genitori devono starsene a casa loro e star zitti”. Questa frase, pronunciata dal cantautore e docente Roberto Vecchioni durante la trasmissione In Altre Parole su La7, ha sollevato un’ondata di cr...

A cura di Redazione
10 maggio 2025 19:23
"Zitti e a casa": la frase di Vecchioni riapre il dibattito su scuola e famiglie. Ma il problema è più profondo -
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I genitori devono starsene a casa loro e star zitti”. Questa frase, pronunciata dal cantautore e docente Roberto Vecchioni durante la trasmissione In Altre Parole su La7, ha sollevato un’ondata di critiche e indignazione. Il contesto era la discussione sul disegno di legge annunciato dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara che introduce l’obbligo di consenso informato per le famiglie prima dell’avvio di attività scolastiche riguardanti l’educazione sessuale. Ma, oltre alla polemica immediata, le parole di Vecchioni hanno riportato al centro dell’attenzione un nodo irrisolto del sistema scolastico italiano: il rapporto, spesso problematico, tra scuola e famiglie.

L’episodio

Vecchioni, nel suo intervento televisivo, ha criticato apertamente la proposta del governo, secondo la quale genitori e tutori legali dovrebbero firmare un’autorizzazione esplicita per far partecipare i figli a lezioni di educazione sessuale. Secondo l’artista, tale meccanismo rappresenta una forma di limitazione dell’autonomia scolastica e del diritto dei giovani a ricevere una formazione completa. A far infuriare molti, però, non è stata tanto la sua posizione quanto il modo in cui è stata espressa: l’invito provocatorio ai genitori a “stare zitti” è stato interpretato da molti come un tentativo di esautorare le famiglie dal processo educativo.

Una frattura che viene da lontano

In realtà, lo scontro tra scuola e famiglie non è un fenomeno nuovo. Da anni si registra una progressiva perdita di fiducia reciproca: i docenti si sentono delegittimati, sottoposti a continue pressioni, spesso accusati di non saper gestire le dinamiche emotive o sociali degli alunni; i genitori, d’altro canto, percepiscono la scuola come un’istituzione distante, che pretende di intervenire su aspetti educativi ritenuti personali o familiari.

Vecchioni ha semplicemente, e con toni eccessivi, portato in superficie una tensione latente. Quando la scuola tenta di affrontare temi come la sessualità, l’affettività, l’identità di genere o la cittadinanza attiva, non è raro che emergano resistenze forti da parte delle famiglie, spesso divise tra la richiesta di tutela dei propri valori e il timore di “indottrinamenti”.

L’illusione di una scuola neutrale

Un equivoco di fondo alimenta questo conflitto: l’idea che la scuola possa essere neutrale. In realtà, ogni scelta educativa è portatrice di una visione del mondo. Insegnare educazione civica, parlare di parità di genere, affrontare la sessualità in termini scientifici o relazionali implica delle scelte valoriali. Quando queste si scontrano con visioni familiari profondamente diverse, il conflitto diventa quasi inevitabile.

Il disegno di legge Valditara, introducendo il consenso preventivo dei genitori, prova a rassicurare chi teme che la scuola possa superare il proprio mandato. Ma rischia di trasformare l’educazione in un mosaico di autorizzazioni, privando gli studenti del diritto a una formazione comune e condivisa, e delegittimando il ruolo della scuola come luogo di crescita culturale e civile.

Famiglie partecipi o famiglie giudici?

Uno dei punti più controversi riguarda il ruolo che le famiglie dovrebbero avere nel sistema scolastico. Teoricamente, il patto educativo di corresponsabilità firmato all’inizio dell’anno scolastico stabilisce un’alleanza tra genitori e scuola. Nella pratica, però, questa alleanza si incrina facilmente. Troppo spesso, i genitori intervengono come “difensori d’ufficio” dei figli, pronti a contestare valutazioni, note disciplinari o scelte didattiche, e troppo raramente come alleati reali dell’istituzione scolastica.

Vecchioni ha probabilmente sbagliato tono, ma ha centrato un problema: chi educa cosa, e con quale legittimità? Se ogni intervento educativo deve passare attraverso il filtro del consenso familiare, il rischio è che la scuola rinunci al proprio ruolo di agente formativo autonomo, riducendosi a mero esecutore di volontà esterne.

Il nodo dell’educazione sessuale

L’educazione sessuale è il terreno più scivoloso, perché tocca corde profonde: il corpo, l’identità, la religione, i valori. In Italia, l’assenza di un programma nazionale obbligatorio ha generato una situazione a macchia di leopardo: in alcune scuole si affronta l’argomento con serietà, in altre viene del tutto ignorato per timore di reazioni. Il ddl Valditara sembra voler regolare proprio questo vuoto, ma la modalità scelta – l’obbligo del consenso scritto – rischia di rafforzare le diseguaglianze e di limitare l’accesso a un’educazione completa solo a chi ha famiglie più aperte o informate.

La scuola come spazio condiviso

Serve un cambio di paradigma. Famiglie e scuola non devono essere in competizione, ma neppure pretendere reciprocamente un’adesione totale. Occorre riscoprire la scuola come spazio terzo, luogo di incontro tra differenze, in cui i ragazzi possano confrontarsi con visioni diverse da quelle familiari. Questo non significa escludere i genitori, ma coinvolgerli in un dialogo reale, senza che diventino censori o “clienti” del sistema scolastico.

Per farlo, servono chiarezza, trasparenza e formazione. Formazione dei docenti, per affrontare temi sensibili con competenza; formazione delle famiglie, per superare paure spesso legate a disinformazione o pregiudizi; e soprattutto un patto educativo che non sia solo un foglio da firmare, ma un progetto comune.

Il dito e la luna

Le parole di Vecchioni hanno avuto l’effetto di un sasso nello stagno. Ma la vera questione non è il tono, bensì il contenuto del dibattito. La scuola può ancora essere il luogo in cui si educano cittadini liberi, consapevoli e rispettosi delle diversità? Oppure dovrà limitarsi a trasmettere solo ciò che ogni singola famiglia autorizza?

In un tempo di forti polarizzazioni, la risposta a questa domanda non è scontata. Ma da essa dipende il futuro di una scuola pubblica davvero inclusiva e autonoma.

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